“SAnPA”: L’OPINIONE DI ANDREA MUCCIOLI

data di pubblicazione:

19 Gennaio 2021

La serie tv, in cinque puntate, “SanPa” sulla comunità di San Patrignano, ha acceso nelle settimane scorse un animato dibattito pubblico, non solo sulla storia della comunità riminese fondata da Muccioli, ma più in generale sulla questione droghe. Di seguito, si riporta, dal sito del Corriere della Sera, l’intervista ad Andrea Muccioli, figlio del fondatore della comunità e a sua volta responsabile della stessa dalla morte di Vincenzo al 2011. Pur criticando alcune scelte del padre nella gestione della comunità, Andrea Muccioli rivendica in modo fermo la correttezza del suo comportamento e il modello comunitario costruito, negando la presenza di violenze su alcuni ospiti.

Quindi lei pensa che i metodi coercitivi usati in quegli anni siano incidenti di percorso?
«Non lo penso. Credo anzi che siano stati errori gravissimi. Ma quando parliamo di San Patrignano non parliamo della Caritas, con tutto il rispetto. Parliamo di un percorso drammatico di accoglienza di giovani, i tossicodipendenti degli anni ’80, che distruggevano le loro famiglie ed erano abbandonati dallo Stato. Venivano da contesti violenti e sarebbe stato inimmaginabile gestirli con la violenza. Perché la violenza la conoscevano e la esercitavano meglio di te. Come si fa a pensare di poter tenere insieme non dico mille persone, ma anche solo dieci con la forza? Scherziamo? Ecco, a proposito di fatti: la riprova di quello che dico sono le centinaia di bambini che i tribunali di tutta Italia ci diedero in affidamento».

I critici di Vincenzo Muccioli descrivono un padre padrone che ha costruito un metodo terapeutico incentrato sul suo carisma.
«Lui per primo si definiva un padre, e a volte questa cosa gli è sfuggita di mano. È vero. Lo ripeto, gli ho visto mollare ceffoni. Ma attenzione: non ha mai autorizzato nessun altro a farlo. “Un fratello non alza mai le mani su un suo fratello” diceva. Lui voleva essere una figura forte di riferimento perché i ragazzi riacquistassero la fiducia e il rispetto in se stessi».

Qual è stato il suo errore?
«Voler salvare tutti. L’accoglienza incondizionata ha un prezzo alto da pagare. Lui questo non lo accettava e così facendo a volte ha dato ai ragazzi una responsabilità più grande di quella che erano in grado di gestire. “Metto un letto a castello in più e ci arrangiamo” diceva di fronte alle centinaia di persone accampate fuori dal cancello. Ha aperto troppo rispetto alle nostre capacità organizzative. Il risultato è che ha delegato anche persone impreparate a gestire ragazzi in difficoltà».

Nel ‘93 si scoprì che un ospite, trovato cadavere in una discarica napoletana, era stato ucciso di botte dentro San Patrignano e poi trasportato in Campania. Suo padre prima affermò di non averne mai saputo nulla, poi cambiò versione. A lei cosa disse in quei giorni?
«Alla notizia che Roberto Maranzano era morto in comunità reagì dicendo che una cosa del genere non era possibile, e io gli credetti. Quando venne fuori che sei mesi dopo il delitto, nell’89, lui era stato informato, fu come se mi fosse scoppiata una bomba in faccia».

(…) Si racconta che a molti ospiti non fu comunicato che fossero sieropositivi. Una cosa taciuta dai vertici anche per anni.
«Improvvisamente scoprimmo che in una comunità di 2 mila persone, 3 su 4 erano sieropositivi. Se lo avessimo detto a tutti nello stesso momento sarebbe stato il caos. Abbiamo scelto di comunicarlo uno ad uno, prendendo tempo. A distanza di anni? Ovviamente no. Io, per inciso, giocavo tutti i giorni a basket con ragazzi che sapevo essere sieropositivi».

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