Un ragazzo catenese con un passato da hikikomori racconta la propria esperienza, a lieto fine, di isolamento. Data la scarsità di questo tipo di racconti, si tratta di una testimonianza preziosa che può essere di ispirazione a chi vive questa condizione.
Di seguito si riportano alcuni passaggi dell’intervista, realizzata da Anastasia Morale e Alessandra Pandolfini, studentesse del II anno della Scuola biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios.
“Per quanto tempo sei stato hikikomori?
«Ho vissuto una prima fase che è durata più o meno un anno, poi una seconda fase lunga sei mesi intensi. Non c’è stato però uno stacco, è stato più fluido. Immaginate come un grafico che sale e scende, il picco corrisponde al periodo in cui sono stato chiuso in casa. La seconda fase è scaturita da tre problematiche importanti: una storia finita male con una ragazza, la rottura col mio gruppo di amici e un intervento alla gamba, a cui è seguito un incidente stradale perché non riuscivo ancora a guidare bene. In più l’università, che era un pensiero troppo pesante.
Tutto questo mi ha portato a chiudermi. Ero già predisposto a farlo ma questi eventi sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In quel periodo ho preso tantissimi chili, mangiavo un intero pacchetto di Kinder Délice in una sola giornata. In quel momento non mi importava della cura personale, gli zuccheri erano come una droga per me. Solo adesso sto cominciando a interessarmi al mio corpo».
(…) Nello stile di vita di un hikikomori secondo te, oltre ai “contro”, ci sono anche dei “pro”?
«Secondo la mia esperienza, no. Puoi averne l’impressione quando ci sei dentro, poiché ti crei una sorta di comfort zone, ma quando ne esci capisci quanto ti abbia danneggiato».
Con il senno di poi, cosa ti ha insegnato questa esperienza così importante?
«Mi ha insegnato che non abbiamo il controllo completo su ciò che facciamo o diciamo in un determinato momento; che devo parlare e sforzarmi di esprimere i miei sentimenti, pur sapendo che la persona che ho davanti potrebbe usarli per ferirmi; che tra subire e affrontare è sempre meglio la seconda».
Durante il periodo di isolamento l’hikikomori crede di essere totalmente solo o sente che possa esserci anche una sola persona in grado di capirlo?
«Quando ci sei dentro sei convinto che nessuno ti possa capire, personalmente mi sentivo “l’unico al mondo”. Penso che siano poche le persone che possono comprendere le paure di ragazzi che vivono in una società sempre più complessa, in cui tutti corrono sempre. Quando andavo all’università vedevo tutti correre sempre dietro gli esami. Ho odiato l’università, l’ho lasciata per paura, per non dover stare dietro a tutto quello stress, e per le ingiustizie che vedevo continuamente, non c’era umanità».
L’isolamento sociale di un hikikomori, che pensa solo a sé stesso, può essere frainteso come egoismo. Nella tua esperienza invece sembra che ci sia spazio per l’altruismo…
«Da piccolo cercavo sempre di essere gentile e generoso, tutt’ora quando vedo qualcuno che ha bisogno ho difficoltà a rimanere fermo. Tuttavia ho una timidezza di fondo, quindi penso che mi intrometterei in una situazione che non mi riguarda, preferisco aspettare che quella persona mi chieda di dare una mano e sono apertissimo a farlo, con chiunque abbia davanti».
Come gestivi la tua vita virtuale, considerando che nel digitale l’hikikomori non ha la dimensione del tempo, dello spazio e perfino del corpo?
«Sono sempre stato un appassionato di videogiochi. Creare nella realtà virtuale il profilo di un personaggio che adoravo mi permetteva di essere chiunque volessi diventare. Potevo parlare come quel personaggio, interagire con gli altri con un’altra versione di me. Nessuno sapeva chi fossi realmente, mi sono divertito per molto tempo a creare personalità che parlassero al posto mio. Comunicavo solo via chat, mi spaventava accendere il microfono e utilizzare la mia voce».
A livello fisico come riuscivi a reggere tutte quelle ore di fronte a uno schermo video?
«Si trattava di un meccanismo on/off. Quando premevo il pulsante di accensione del computer non mi rendevo più conto di tutto quello che c’era oltre lo schermo. L’unica realtà che vivevo era solo quella dentro il monitor. Non mi accorgevo di rumori o stimoli esterni, ero come anestetizzato. Non sentivo più la consapevolezza di essere umano con un corpo, una vita e un passato. Nella fase off, a computer spento, provavo poi un senso di nausea. Come ritornare di colpo a respirare dopo essere stato in apnea per un tempo indefinito.