“SanPa”, serie tv in cinque puntate, disponibile sulla piattaforma Netflix, ricostruisce la vicenda di una delle più famose – e controverse – esperienze comunitarie di recupero per persone con dipendenza da sostanze: la comunità di San Patrignano. Attorno ala serie si è acceso un animato dibattito pubblico. Dopo la presa di posizione della stessa Comunità di San Patrignano, segnaliamo le opinioni di Domenico ‘Megu’ Chionetti della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova e Claudio Cippitelli della Cooperativa Parsec di Roma. Per entrambi, sostenitori di un diverso modello d’intervento e di cura delle dipendenze da sostanze, la serie tv omette due dati: l’esistenza, negli stessi anni della fondazione di San Patrignano, di altre tipologie di accoglienza e di aiuto comunitario, e un certo fraintendimento attorno alle pratiche coercitive usate nella comunità riminese. “”Domenico “Megu” Chionetti della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, continua a portare avanti il lavoro di Don Andrea Gallo, e ci tiene a chiarire che le “comunità non sono tutte uguali”. Quella fondata dal Gallo è una comunità di “accoglienza”, molto diversa da quella di San Patrignano, qui “non ci sono catene, né porte chiuse a chiave, nessuno è costretto a restare”. “Tagliare i contatti con l’esterno, recludere le persone, imporre un ordine e una disciplina che annullano le storie e i vissuti di chi ha una dipendenza, questo non è di certo il nostro modello – spiega Megu – Noi non vogliamo che le persone cancellino le loro vite, le ragioni e i percorsi che li hanno portati a drogarsi. Perché un tossicodipendente per noi non è un debole, un pazzo o un malato, non è un essere inferiore su cui imporre la nostra volontà”.
Claudio Cippitelli è invece sociologo e il presidente della Cooperativa Sociale Parsec di Roma, che da decenni si occupa di riduzione del danno e dipendenze. “Prima c’erano solo due approcci: quello del Sert che con il farmaco di sostituzione, il metadone, medicalizzava il tossicodipendente trattandolo solo come un malato, e poi le comunità che pretendevano e pretendono di ricostruire la persona che vi entra cancellando l’esperienza della tossicodipendenza, la sua identità e la sua storia”. Le famiglie di solito sceglievano la comunità: i figli magari non finivano in galera né si ammalavano, ma soprattutto “la sofferenza era rimossa da loro davanti, il problema delegato a chi presupponevano avesse gli strumenti per affrontarlo”. “Tutto cambia con l’arrivo dell’Aids – spiega Cippitelli – In quel momento si comincia a lavorare sulla riduzione del danno, salvando decine di migliaia di vite. Ci sono soggetti come noi di Parsec che cominciano a lavorare sui territori, nei quartieri delle città, senza pensare di estraniare il ‘tossico’ dal suo contesto, anzi valorizzandone il vissuto e l’esperienza“. La fuoriuscita dal consumo non viene affidata a un leader carismatico come in comunità, ma passa per la volontà individuale, nuovi servizi si strutturano in alleanza e non in contrapposizione con il servizio sanitario e i Sert, il metadone diventa non lo strumento ma uno degli strumenti.
Ed ecco l’altro nodo della questione: il rapporto con le istituzioni e il Servizio sanitario nazionale. “Il servizio pubblico è fondamentale, le istituzioni non si possono ritirare come sta accadendo dai servizi per la tossicodipendenza affidandole a strutture private. – racconta Domenico Chionetti – È una questione prima di tutto di giustizia sociale, altrimenti solo chi ha il denaro per farlo può disintossicarsi se lo vuole, e poi è un problema di trasparenza: per noi il servizio sanitario nazionale è il primo referente e alleato, cosa succede invece in comunità chiuse all’esterno? Rischiamo che rimangano invisibili e senza nessun controllo”. Cosa succede poi quando si esce della comunità? E soprattutto chi non è stato “salvato” dall’esperienza in comunità che fine fa? “Gli spariamo? Lo abbandoniamo?”. Megu sceglie una metafora per spiegare la necessità di servizi sui territori e di prossimità: “C’è un pesce che si ammala perché si trova in uno stagno inquinato, lo tolgo dallo stagno e lo metto in un acquario bello pulito e guarisce, poi lo rimetto nello stagno e che succede? Si ammala di nuovo”. Welfare, percorsi lavorativi e di inserimento, senza una società meno diseguale chi vuole combattere la propria dipendenza avrà più difficoltà in molti casi. Fuori dalla cultura proibizionista il “tossico” non viene stigmatizzato né perseguitato, benché meno ci si arroga il diritto di sostituirsi con la coercizione alla sua volontà.