detenuti con disturbo da uso di sostanze in comunità terapeutica?

fra i motivi ostativi elencati da lacatena, ragioni di tipo finanziario, legate alla durata dei programmi terapeutici, alla mancanza di posti, ma anche motivazioni di tipo etico

troppe incognite e limiti, insiti nell'attuale sistema che regola le comunità terapeutiche, spingono la sociologa a considerare inopportuno la proposta governativa

data di pubblicazione:

17 Settembre 2025

E’ opportuno che i detenuti con disturbo da uso di sostanze siano destinati in comunità terapeutica, come da piano del governo Meloni? Secondo Anna Paola Lacatena, sociologa esperta di sostanze, la risposta è no, per dieci ragioni che elenca in un articolo pubblicato su l’Avvenire.

“Il Governo, pressato dall’annoso problema del sovraffollamento più che dall’impellenza della risposta di cura, ha recentemente affermato che i detenuti con Disturbo da uso di sostanze (Dus) non possono stare in carcere, ipotizzando il collocamento in Comunità Terapeutiche (Ct) come rimedio universale.

Poco importano, dunque, la scienza, gli studi, i dati di ritorno, i programmi ambulatoriali dei 571 Serd (Servizi per le dipendenze) afferenti al Servizio Sanitario Nazionale presenti in tutte le province italiane: per una gran parte della popolazione, ben accudita e debitamente orientata in maniera propagandistica, la dipendenza patologica, quando non anche il più diffuso uso da sostanze legali e illegali, era e resta una questione morale.

Le strutture terapeutiche gestite dalle organizzazioni del Privato Sociale e rispondenti al flusso informativo semestrale del ministero dell’Interno, al 31 dicembre 2024, sono risultate essere 761 (873 complessivamente esistenti) per un totale di circa 13.862 posti (14,6 per struttura). Perché il ventilato esodo di parte dei detenuti con Dus verso la terra promessa delle Ct non risolverebbe il problema del sovraffollamento e con buona probabilità neanche quello della propria dipendenza patologica?

Senza pretesa di esaustività, almeno per dieci ragioni. La prima è l’esiguità dei posti a disposizione. Le Comunità che accolgono, anche e soprattutto, persone in stato di libertà non potrebbero coprire il fabbisogno che verrebbe a determinarsi nel tempo. Quali sarebbero i criteri di accesso a quel punto? Quali quelli per le eventuali liste d’attesa? La seconda dovrebbe farci interrogare sull’incompatibilità della libertà di cura con l’idea dell’obbligo della stessa.

La terza, conseguenza della seconda, è che in assenza di una reale compliance terapeutica i risultati sarebbero piuttosto deludenti a discapito soprattutto di nuclei familiari già esasperati. Le Comunità sono luoghi di cura, non di reclusione e, dunque, non sono attrezzate a farne le veci, rischiando di diventare colonie penali in balia di dinamiche tipiche della detenzione.

E questa è da considerarsi la quarta ragione. Provate ad oggi da iter estenuanti e spese finalizzate all’adeguamento strutturale e di personale richieste dagli standard per l’accreditamento istituzionale, le Comunità vivono condizioni di grande disagio economico che non sarebbero risolte da una spesa sanitaria che crescerebbe a dismisura a fronte delle contrazioni e dei tagli degli ultimi anni.

Ad oggi – sesta motivazione – molte strutture sono ancora legate a vecchi schemi a proposito di programma comunitario con il riscontro del numero bassissimo di ospiti che portano a termine il programma concordato. I dipendenti patologici inseriti nel tessuto sociale, con una propria dimensione lavorativa e familiare, sempre più difficilmente accettano i consueti programmi di 18, 24 fino a 30 mesi. Più spesso utilizzano la Ct per un reset che non va oltre i 3/6 mesi.

Per contro è assai frequente che quanti raggiungono il fine programma sono persone senza fissa dimora e senza reti sociali e familiari la cui collocazione diventa particolarmente difficoltosa. In questo caso la struttura viene utilizzata come residenza in assenza di alternative proponibili da parte di altri Servizi. Per quanto tempo tutto ciò potrebbe essere sostenibile da parte della struttura ospitante? Si presuppone, infatti, che all’esigenza di casa e sostentamento non dovrebbero essere preposti Serd e Comunità.

La settimana motivazione riguarda ancora la durata dei programmi. Ipotizzando un residenziale terapeutico- riabilitativo di 18 mesi, come da accreditamento e susseguenti accordi contrattuali con l’Azienda sanitaria locale che paga le rette pro die, qualora la persona giungesse dal carcere con una pena anche solo sotto i quattro anni – potrebbero essere di più anche da normativa attualmente vigente – cosa accadrebbe dopo un anno e mezzo?

La persona passerebbe al programma ambulatoriale presso il Serd? Continuerebbe a permanere pur avendo terminato il percorso previsto e occupando, dunque, un posto che dovrebbe essere a disposizione di altri? Tornerebbe in carcere? Quest’ultima ipotesi sarebbe davvero fallimentare. Qualora ci fossero liste d’attesa – sempre più diffuse su tutto il territorio nazionale così come il veto delle Regioni a invii fuori dal proprio territorio regionale – con quali criteri le stesse sarebbero costruite? È già successo che famiglie disperate abbiano cercato di acquistare disponibilità all’ingresso, interloquendo direttamente con le strutture.

E se la persona in carcere chiedesse al Magistrato (art.94 Dpr 309/90), in mancanza di disponibilità di posti liberi da parte di Comunità del territorio, di accedere alle misure alternative, a proprie spese, in una struttura accreditata da lui stesso individuata? Quale sarebbe la risposta e sulla scorta di quale formazione biopsicosociale specialistica?

Quale potrebbe essere una delle possibili conseguenze se non aprire alla possibilità della gestione diretta delle strutture da parte della criminalità organizzata per offrire comoda ospitalità agli affiliati e per garantire un canale legale al riciclaggio? Allora sì che ancora una volta potrebbe “curarsi” (molto virgolettato) solo chi ha soldi, potere. Allora sì sarebbe opportunismo furbo.

La nona motivazione si rifà all’ancora insanata carenza di condivisione tra operatori della Giustizia e operatori della Salute circa la dipendenza patologica (termini, condizioni e contenuti): da una parte il reato, la pena, la condanna dall’altra la malattia. Chi sviluppa questa patologia va quasi con certezza incontro a fasi critiche in cui la sostanza può riaffacciarsi, in molti casi non la stessa, virando in direzione di quelle legali (alcol, psicofarmaci) o verso comportamenti a rischio (gioco d’azzardo).

In questi casi, cosa significherebbe per l’Ufficio esecuzione penale esterna e per il magistrato di sorveglianza se non la revoca della misura alternativa e il reingresso in cella. Per finire le Comunità abdicherebbero alla propria funzione terapeutica per assumere quella dei controllori con il rischio di finire in balia dei controllati. Gli interventi di cui questioni così delicate necessitano non vanno d’accordo con la semplificazione che vede nella complessità solo un’inutile sofisticheria.”

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