Un commento sul nuovo decreto “Carcere sicuro”

Per Michele Miravalle di Antigone ci sono ancora troppi punti non chiari nel decreto

Il Decreto prevede l'istituzione di un albo di comunità, adibite alla detenzione domiciliare, che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti, tra cui quelli con residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per determinati reati.

data di pubblicazione:

21 Luglio 2024

Sul sito di Vita è possibile leggere una intervista a Michele Miravalle sul decreto legge “Carcere sicuro”. A pochi giorni dalla sua approvazione Miravalle si pone in modo critico su diversi aspetti contenuti nel Decreto. Primo tra tutti l’assunzione di 1000 agenti penitenziari. Figure fondamentali riconosce, ma che secondo lui con questa disposizione”(…) significa far passare ancora una volta una visione nel segno dell’ordine pubblico, della securitizzazione del carcere.”

Sarebbe stato invece importante assumere o stabilizzare anche altre figure professionali che operano in carcere, come psicologi, psichiatri, mediatori linguistici o culturali e educatori sportivi. Figure che possono portare altri linguaggi all’interno del carcere e che servirebbero ad affrontare un tema fondamentale: quello della salute. Un tema quest’ultimo che secondo Miravalle il decreto non affronta nonostante sia il vero problema.

Sull’istituzione di un albo di comunità, adibite alla detenzione domiciliare e che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti, Miravalle sospende il giudizio. Questo perché non solo si rimanda di sei mesi ad un regolamento e ad un non meglio specificato albo delle comunità, ma anche perché il rischio è di trasformare questi luoghi in parcheggi, in contenitori vuoti, ricalcando il lavoro fatto sulla gestione dei migranti. Per Miravalle serve quindi un confronto serio con il Governo per stabilire qualità degli spazi di accoglienza e qualità degli interventi. 

Però c’è una nota positiva secondo lui, ossia “(…) che questa novità della comunità affronta un tema reale. Molte persone avrebbero i requisiti normativi per andare alla detenzione domiciliare già oggi, ma non ci vanno perché una casa non ce l’hanno: manca loro un domicilio idoneo. Questo governo mette nero su bianco un’idea, che già si proponeva da tempo, che queste comunità possano diventare domicili idonei per chi una casa non ce l’ha. Per le persone non in possesso di un domicilio idoneo queste comunità serviranno.

Con questo decreto il governo prende atto di quello che diciamo da un bel po’: in carcere oggi, se analizziamo la popolazione detentiva, ci sono categorie che appartengono alla sfera non tanto della criminalità ma del disagio sociale, nelle sue varie articolazioni: povertà, problemi di salute, devianza giovanile ecc.

Verso queste categorie la risposta “carcerocentrica” non funziona. Le comunità vanno in questo senso, ci si è resi conto che una persona con pene basse, con problemi di tossicodipendenza, con un disagio sociale non deve stare in carcere ma ha bisogno di un altro tipo di intervento. Ma se queste sono le premesse del decreto, il risultato è un po’ la montagna che ha partorito il topolino.”

Anche rispetto al tema del lavoro e delle telefonate le criticità non mancano. Sul lavoro siamo ancora lontani dall’inserimento di persone in veri e propri percorsi lavorativi, soprattutto in carcere dove più che altro si occupa il tempo “(…)  per contrastare l’ozio carcerario.” Gli occupati presso datori di lavoro esterni all’amministrazione penitenziaria sono ancora pochissimi.

Per quanto riguarda l’aumento del numero di telefonate da 4 a 6 in un mese Miravalle commenta in questo modo: “In un mondo iperconnesso, in cui gran parte delle nostre giornate le trascorriamo al telefono, abbiamo delle regole penitenziarie che continuano a comprimere a una telefonata ogni tre-quattro-cinque giorni. È chiaramente una disposizione anacronistica e, in alcuni casi dannosa: non avere contatti stabili con i familiari e con l’esterno può portare, in momenti di fragilità, a situazioni più serie e disperate. Continua questo tabù: in carcere non si può comunicare. Questo tabù è giustificato solo in parte da ragioni di sicurezza, nei confronti di alcune categorie di detenuti una liberalizzazione delle telefonate non avrebbe nessun effetto negativo della sicurezza: su questo bisogna essere molto chiari. Bisognerebbe distinguere situazioni e situazioni, laddove non ci sono rischi evidenti per la sicurezza andare verso una liberalizzazione delle telefonate.

 

 

 

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