Parlare di disturbi, soprattutto di quelli mentali, significa aumentare la loro accettazione sociale e quindi anche l’accettazione dell’uso degli psicofarmaci, che rappresentano per molte persone un modo per affrontare meglio le loro sofferenze. La paura di essere stigmatizzati a causa dell’ utilizzo di psicofarmaci è il tema che affronta un articolo sul sito di The vision.
Se assumiamo farmaci a causa di disturbi o malattie fisiche nessuno ha nulla da dire, mentre se si assumono psicofarmaci a causa di disturbi mentali veniamo spesso guardati con diffidenza e siamo vittime di pregiudizi.
Secondo l’autore dell’articolo l’origine di questi pregiudizi va ricercata nell’abuso di farmaci che è stato fatto negli anni cinquanta, quando le benzodiazepine (tra gli psicofarmaci più venduti al mondo) erano date prevalentemente alle casalinghe più come sedazione che come cura effettiva.
Se vai dal medico e prendi dei farmaci va tutto bene, mentre se vai dallo psichiatra e prendi farmaci sei spesso giudicato e di conseguenza tendi a nascondere la tua situazione per vergogna, tutto questo nonostante l’evoluzione della farmacologia, che evidentemente non ha cambiato la mentalità comune.
“(…) ll timore principale riguarda gli effetti collaterali. È indubbio che possano sorgere, ma vale per tutte le tipologie di farmaci, compresa una banale aspirina. È però la paura di un’alterazione chimica a livello mentale a frenare una cura, come se non si potesse tornare indietro. Chi ha avuto a che fare con un percorso psichiatrico sa bene come dietro la prescrizione di un farmaco ci sia un piano fatto su misura del paziente. Non sempre, infatti, uno psicofarmaco è sin dall’inizio quello giusto.
Si sonda il terreno e, sempre sotto stretto controllo medico, possono essere apportati cambiamenti fino a trovare la cura giusta. Ogni passo viene seguito in modo scrupoloso e anche la fine di un trattamento ha delle regole molto precise, in quanto la sospensione di un medicinale – e questo non riguarda solo gli psicofarmarci – deve essere graduale, onde evitare sintomi di ritorno (effetto rebound) o crisi d’astinenza”.
Ma il problema principale non è solo il farmaco con le sue proprietà, anche le modalità e il contesto d’uso sono fondamentali, come per tutte le altre sostanze psicoattive, legali e illegali.
Ancora l’autore evidenzia come “(…) Il pericolo non è il medicinale in sé, ma l’uso che se ne fa e il modo in cui viene concepito nell’immaginario collettivo. Le benzodiazepine sono ormai considerate elementi di corredo di un’adolescenza problematica, beni di facile consumo o addirittura di accettazione all’interno di un gruppo. Culturalmente si è arrivati a utilizzarli – spesso a sproposito – nelle canzoni, nelle interviste, nei post sui social o nei meme, come se fossero coperte di Linus o vezzi da gioventù ribelle e non medicinali. Utilissimi, fondamentali in certi casi, ma il cui abuso rischia di vanificare qualsiasi campagna di sensibilizzazione effettiva per non demonizzarli”. Secondo il rapporto Osmed 2020 dell’Aifa il consumo di benzodiazepine non c’è stato solo durante la pandemia da Covid-19, ma era stato già registrato durante il triennio 2015/17 sempre dalla stessa agenzia.
Però “(…) nonostante il numero di persone con disturbi depressivi sia notevolmente aumentato in seguito alla pandemia, il consumo di antidepressivi non è variato. E il motivo sta nella non accettazione della propria malattia e nella paura di certi psicofarmaci. Quindi sarebbe giusto parlare tranquillamente del loro utilizzo come si fa per tanti altri farmaci che si prendono per specifici disturbi e sotto prescrizione medica. Anche perché “La più recente ricerca pubblicata su Lancet sull’argomento, basata sull’analisi dei dati di 522 studi condotti su 116mila persone, ha dimostrato l’efficacia degli psicofarmaci, sfatando diversi miti che ci portiamo dietro da anni”.