L’appello al congresso Simspe-Simit: “Subito i Lea nelle carceri”.
Su tre detenuti, solamente uno non è malato e la metà è ignaro della propria patologia. Gravi i dati su Hiv e Hcv e in aumento la tubercolosi. “Un detenuto su tre è affetto da epatite C e il problema sarebbe oggi risolvibile”, afferma Sergio Babudieri, dell’Università di Sassari, Direttore Scientifico Simspe.
I Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), i limiti minimi che devono essere mantenuti dal Sistema Sanitario Nazionale, dal 2017 sono entrati a far parte dell’ambito penitenziario.
“È un punto di svolta – dichiara il Prof. Sergio Babudieri Direttore delle Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Sassari e Direttore Scientifico di Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) – perché fino ad oggi la sanità penitenziaria è stata attendista, mentre l’obiettivo oggi è di farla diventare proattiva, con una presa in carico di tutte le persone che vengono detenute”.
Ma per il momento si tratta di un atto formale più che pratico: “Nonostante l’importanza del provvedimento – sottolinea Babudieri – occorre trovare le giuste modalità, sia a livello centrale che regionale, affinché l’organizzazione venga modificata e lo screening nelle carceri venga attivato il prima possibile”.
Nonostante si tratti di una popolazione giovane rispetto alla media, solo un detenuto su tre non presenta alcuna patologia. Il 50% dei malati è ignara della propria patologia o comunque non la dichiara ai servizi sanitari penitenziari. Questi alcuni dei preoccupanti dati presentati a Roma al Congresso della Simspe, patrocinato dalla Simit (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali).
“Abbiamo scelto questo tema, significativo poiché denso di contenuti, per approfondire una riflessione ormai quasi decennale sugli effetti concreti del transito dei servizi sanitari penitenziari al Sistema Sanitario Nazionale – afferma Luciano Lucanìa Presidente Simspe -. Si chiede una sanità adeguata a un bisogno di salute diverso. In qualità e quantità. Serve maggiore attenzione ai problemi legati all’intrinseca vulnerabilità sociale che certamente ampia parte dei detenuti presenta, occorrono buone prassi di informazione sulle maggiori patologie infettive. Fondamentale la cura e la garanzia di un diritto costituzionale. Auspicabile lo sviluppo dei reparti ospedalieri per detenuti con una diffusione almeno regionale, così da poter garantire assistenza ospedaliera in maniera più adeguata”.
Le malattie nelle carceri
Nel corso del 2016 sono transitate all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani oltre centomila detenuti. Gli stranieri detenuti sono oggi il 34% dei presenti e la detenzione è un’occasione unica per quantificare il loro stato di salute, dal momento che in libertà sono difficilmente valutabili dal punto di vista sanitario. La loro età media è più giovane rispetto agli italiani ed oltre la metà è portatrice latente di tubercolosi. Ma anche le patologie psichiatriche risultano essere fortemente diffusa; la schizofrenia appare notevolemente sottostimata, con appena uno 0,6% affetto da questa patologia, che rappresenta in realtà solo i pazienti detenuti con sintomi conclamati e facilmente diagnosticabili, lo stesso dicasi per altre malattie psichiatriche gravi. Notevolmente maggiore è la massa di coloro che hanno manifestazioni meno evidenti ed uguale bisogno di diagnosi e terapia e non vengono spesso valutati.
Hiv e Hcv
Ma i dati più preoccupanti provengono dalle malattie infettive. Si stima che gli Hiv positivi siano circa 5.000, mentre intorno ai 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B. Tra il 25 e il 35% dei detenuti nelle carceri italiane sono affetti da epatite C: si tratta di una forbice compresa tra i 25mila e i 35mila detenuti all’anno. Dall’1 giugno scorso l’Agenzia Italiana del Farmaco ha reso possibile la prescrizione dei nuovi farmaci innovativi eradicanti il virus dell’epatite C a tutte le persone che ne sono affette. Quindi una massa critica di oltre 30mila persone che annualmente passa negli istituti penitenziari italiani, potrebbe usufruire di queste cure ma anche per non contagiare altri nel momento in cui torna in libertà.
“È una sfida impegnativa – prosegue Babudieri – si tratta di un quantitativo ingente di individui, soggetti peraltro a un continuo turn-over e talvolta restii a controlli e terapie. Un lavoro enorme, di competenza della salute pubblica: senza un’organizzazione adeguata. Pur avendo i farmaci a disposizione, si rischia di non riuscire a curare questi pazienti. La presa in carico di ogni persona che entra in carcere deve dunque avvenire non nel momento in cui questi dichiara di star male, ma dal primo istante in cui viene monitorato al suo ingresso nella struttura. Questa nuova concezione dei Lea significa che lo Stato riconosce che anche nelle carceri è necessaria un certo tipo di assistenza. Fino al 2016 non c’era alcuna regola: questa segnale può essere un grande progresso”.
Il Congresso
Oltre 200 specialisti riuniti a Roma sino a stasera per la XVIII Edizione del Congresso Nazionale Simspe-Onlus ‘Agorà Penitenziaria’, presso l’Hotel dei Congressi in viale Shakespeare 29, zona Eur. Un confronto multidisciplinare con medici, specialisti, infettivologi, psichiatri, dermatologi, cardiologi, infermieri e che coinvolge le diverse figure sanitarie che operano all’interno degli istituti penitenziari. Organizzato insieme alla Simit, con l’obiettivo (fanno sapere gli organizzatori) di fornire spunti per una riflessione approfondita del fare salute in carcere agli stessi operatori sanitari, a chi amministra gli istituti e a chi ha il compito di stabilire le regole ed allocare le risorse.