HIKIKOMORI ED ESPERIENZE DI CURA COMUNITARIE IN GIAPPONE

data di pubblicazione:

30 Aprile 2019

Sul fenomeno degli hikikomori la letteratura scientifica è ancora allo stato iniziale, specie in Europa. Un articolo del sito giornalistico italiano The Submarine offre interessanti elementi d’informazione a riguardo. Si usa distinguere due forme di Hikikomori, difficili da differenziare a livello diagnostico. La prima è legata ad un quadro clinico caratterizzato da stati depressivi, schizofrenia, disturbi ossessivi-compulsivi e “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo” (DPS), mentre nella seconda i pazienti non paiono affetti da nessuna patologia, definito “Hikikomori Primario”. Si può parlare di Hikikomori Primario se il periodo di autoreclusione supera i sei mesi e se in tale lasso di tempo la persona ha visto l’azzeramento dei contatti con il mondo esterno, compresi i propri famigliari e uno stravolgimento nel proprio ritmo circadiano. Due concetti sembrano molto importanti nel descrivere tale fenomeno: Amae e Kyōiku mama: “Amae (da amaeru: presumere la benevolenza di un’altra persona da cui dipendiamo e desideriamo essere amati) termine giapponese che descrive un fenomeno assai complesso che possiamo riassumere come una dipendenza dall’altro dove i nostri desideri e bisogni si esprimono come una richiesta, solitamente egoistica, che questi vengano esauditi sapendo che l’altro in questione lo farà in maniera indulgente – da qui l’espressione dipendenza indulgente – (ndr. Smith – Takako, 2000).
Il prototipo di questo tipo di rapporto simbiotico è quello del bambino con la propria madre che si tradurrà nell’ambiente scolastico col dualismo giovane studente – senpai (compagno più grande preso come esempio, degno di ammirazione e rispetto che suscita timore riverenziale nei più piccoli), fino all’ambiente lavorativo in età adulta. Kyōiku mama (da tradursi con mamma istruzione), espressione dispregiativa dello stereotipo della madre moderna che all’interno della competitiva società giapponese spinge il figlio a superare con successo tutti gli esami. I giovani vivono la scuola come un vero e proprio inferno (shiken jigoku, inferno degli esami) da cui dipende tutto il loro futuro”.

“Secondo il dottor Mitsuru Yamashima, professore alla Chuo University, il fenomeno Hikikomori ha visto innalzarsi l’età media delle persone colpite, soprattutto nelle zone sottopopolate del paese – persone colpite in giovane età che non riescono a tornare alla vita anche oltre i 40 anni d’età e persone che diventano Hikikomori in tarda età. Non si tratta più quindi di un fenomeno assimilabile solo ai giovani e se contiamo l’isolamento di alcune aree il tutto diventa ancora più drammatico”. Se tale fenomeno appare in forte crescita in Giappone, e la sua presenza non può più essere ignorata in tutto l’Occidente (seppure con caratteristiche in parte diverse rispetto a come si presenta nel paese del Sol Levante), l’articolo affronta nella seconda parte delle interessanti storie ed esperienze, in Giapppone e Italia, di aiuto e di cura degli hikikomori.

Si tratta in Giappone di esperienze che si potrebbero definire di comunità: “La comunità ha cominciato così a creare programmi specifici che potessero aiutare gli Hikikomori a sentirsi a proprio agio anche al di fuori delle proprie abitazioni e a ritornare attivi, con possibilità lavorative sotto forma di periodi di prova di diversa durata così da riabituarli alle attività quotidiane, a piccoli passi. La vera forza di queste iniziative è stato l’obiettivo prefissato e cioè quello di creare un contesto migliore in cui vivere per tutti, non solo per gli Hikikomori, così da evitare nuovi casi di isolamento e creare una rete di solidarietà in cui ogni membro possa sentirsi importante e non certamente un peso. Grazie a questi programmi di supporto collettivo e al rinnovato mindset della popolazione, le persone affette da Hikikomori possono trovare lo slancio necessario a superare l’isolamento perché sanno che, una volta usciti, ci sarà un’intera comunità pronta ad accoglierli e possibilità reali da cui partire per ricostruire la propria esistenza. Il caso della cittadina di Fujisato è fondamentale per affrontare il problema qui in Europa, dove negli ultimi anni la rapida diffusione del fenomeno ha costretto alla creazione di apposite strutture”.

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