grazia zuffa: stigma e pregiudizio

verso i consumatori cronici, Zuffa suggerisce di de-medicalizzare i modelli operativi, a favore di interventi flessibili e individualizzati, per favorirne la presa in carico

La pubblicazione ripercorre le principali tappe della trentennale attività di studiosa e politica sulle droghe di Grazia Zuffa

data di pubblicazione:

22 Settembre 2025

Andrea Pugiotto, su l’Unità, recensisce una pubblicazione con scritti di Grazia Zuffa, “Stigma e pregiudizio. Uno sguardo dissacrante sulle droghe” (Edizioni Menabò, 2025). Zuffa, scomparsa lo scorso febbraio, ha seguito per più di trent’anni il dibattito sulle droghe, sia da parlamentare che da studiosa e attivista.

«Secondo il modello morale, l’uso della droga è visto come un comportamento deviante, meritevole di punizione». Ogni condotta connessa a sostanze stupefacenti giustifica il ricorso alla leva penale. In quanto tossicodipendente, il consumatore merita lo stigma sociale, così come la riprovazione verso tutte le droghe fonda l’avversione a qualsiasi politica di riduzione del danno, responsabile di banalizzarne il consumo. Dunque, «in questa prospettiva, la droga è un problema di criminalità».

Diversamente, per il modello medico-patologico, «l’uso di droga è visto come preliminare alla tossicodipendenza, una malattia che necessita di cure». Il ricorso a sostanze stupefacenti è un progressivo avanzamento verso l’irreversibilità della dipendenza. Consumare droghe è quindi una patologia da cui si guarisce solo con l’astinenza, elevata a traguardo del trattamento medico, se del caso da imporre alla volontà dell’utente. Dunque, in questa prospettiva «la droga è un problema di salute».

Apparentemente divergenti, nella realtà – ci avvisa Zuffa – «i due modelli sono meno “alternativi” di quanto possa sembrare» e il perché è persuasivamente dimostrato. La rappresentazione patologica del consumo e del consumatore di droghe converge con l’approccio moralistico negativo nei loro confronti, consacrandolo con l’autorità della medicina: lo stigma verso il drogato non scompare, «semplicemente cambia di segno».

Entrambi i modelli si concentrano sulle proprietà chimiche dannose e additive delle sostanze assunte, relegando il consumatore a soggetto passivo, senza risorse personali, in balia del vizio o della malattia. Da qui il comune approccio dicotomico: come tutti i vizi e tutte le malattie, la tossicodipendenza «è vista come presente o assente.

Da qui l’opposizione o astinente o dipendente». Infatti, per entrambi i modelli, l’astinenza è la terapia d’elezione e comune è l’obiettivo ultimo: «l’eliminazione delle droghe invece della regolazione del loro consumo». Alla fine – è la chiosa affilata di Zuffa – «l’eccessiva enfasi sul “danno della dipendenza” coesiste con l’atteggiamento morale contro l’uso di droga, entrambi offrendo supporto al proibizionismo».

La decostruzione che Zuffa fa dei due modelli dominanti – le classiche facce della stessa medaglia – ne abbatte tutti i capisaldi. Sul piano scientifico, la scoperta di processi di remissione spontanea nell’assunzione di droghe smentisce il paradigma circa l’irreversibilità della dipendenza, svelandone la natura circolare: poiché il tossico è dipendente, chi smette da sé non è un vero tossicodipendente. Più che una tesi scientifica – annota Zuffa – è una profezia che si autoavvera: «è come dire “Testa, vinco io; croce, perdi tu”».

Sul piano farmacologico, ciò è tanto più vero dovendosi distinguere tra sostanze psicotrope, graduandole in base ai loro danni alla salute. Scoprendo così che – in un’ipotetica scala di rischio – l’uso di cannabis, ad esempio, è meno pericoloso del consumo di alcol, tabacco o psicofarmaci.

Sul piano sociale, tutte le indagini empiriche dimostrano che «l’assunzione di droghe è un’attività umana complessa» caratterizzata dalla «grande variabilità nel tempo dei modelli di consumo». Il soggetto attraversa periodi in cui la sua capacità di governare l’uso della sostanza (self management) viene meno o si affievolisce, per poi essere riconquistata in presenza di varie circostanze ambientali (setting) e condizioni individuali (set).

Da qui l’importanza delle variabili sociali e di contesto, con le loro regole d’uso, e della psicologia del consumatore, cui restituire soggettività: considerati fattori di rischio dagli approcci dominanti, sono invece «meccanismi di regolazione» su cui fare leva per un uso controllato della sostanza.

Sul piano normativo, la chimera proibizionista di un totale sradicamento delle droghe ha comportato costi (sanitari e sociali, per il consumatore e per la collettività) rivelatisi più dannosi del fenomeno che intendeva debellare. Il fallimento della war on drugs – certificato a livello internazionale – lascia spazio, da tempo, a politiche più flessibili, orientate alla regolazione del consumo e alla riduzione del danno.

L’approccio suggerito da Zuffa, infatti, mira a «diminuire le conseguenze negative dell’uso di droghe, senza necessariamente ridurre il consumo di droghe». Per riuscirci, investe sul soggetto che ne fa uso, sapendolo capace di controllarne il consumo, non diversamente da quanto ciascuno è in grado di fare – ad esempio – nel bere alcolici, nel fumare, nell’assumere psicofarmaci.

Concretamente, ai servizi sociosanitari spetta sostenere questo processo di autoregolazione perché «consumatori controllati si diventa, attraverso un’opera di regolazione sociale». Concordare con l’utente gli obiettivi del trattamento. Valorizzare l’astinenza temporanea come prova di capacità auto-regolativa dell’utente.

Verso i consumatori cronici, prevenire e controllare le malattie infettive con interventi di prossimità a scongiurare il peggio. De-medicalizzare i modelli operativi a favore di interventi flessibili e individualizzati, più idonei ad agganciare il consumatore in vista di una sua presa in carico.

Per Zuffa, dunque, la riduzione del danno è – a un tempo – «paradigma di interpretazione» dei principi di sanità pubblica nel campo delle droghe e «modello alternativo» alle politiche proibizioniste. Il governo italiano, invece, guarda ideologicamente altrove. Fino a rendere illegale produzione e commercio di estratti derivanti dalla canapa tessile (art. 18, decreto-legge n. 48 del 2025), pur di proibire la cannabis light.

Eppure, è un’illusione autoritaria – destinata a fallire – la pretesa di vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa. Semmai, va governato (culturalmente e socialmente) e disciplinato con norme ragionevoli. Il grande pregio del libro di Grazia Zuffa è dimostrare che, oltre ai dogmi della «Chiesa della proibizione», un’alternativa laica è possibile.”

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